(Pubblicazioni della CIE, volume 14, ordinazioni direttamente alla casa editrice Chronos)

Schweizerische Wertpapiergeschäfte mit dem «Dritten Reich».
Handel, Raub und Restitution

Transazioni svizzere in titoli con il «Terzo Reich».
Commercio, rapina e restituzione

Hanspeter Lussy, Barbara Bonhage, Christian Horn

Riassunto

La ricerca presente descrive i nessi fra il commercio tedesco-svizzero in titoli, la rapina di titoli da parte del «Terzo Reich» e la restituzione, nel 1945, dei titoli venduti in Svizzera. L'idea base dell'indagine è stata quella di analizzare i mutamenti del commercio in titoli con la Germania nel contesto modificato della crisi bancaria degli anni 1930, dell'avvento al potere dei nazionalsocialisti e della guerra. Accanto all'esposizione dell'economia di rapina del regime nazista, si è inoltre intensivamente analizzato come le banche svizzere ostacolarono, dopo la fine della guerra, la restituzione dei titoli sottratti agli ebrei e alle popolazioni dei territori occupati. La ricerca si basa su fondi bancari e giudiziari svizzeri e la consultazione di materiale d'archivio tedesco e olandese.

Commercio svizzero-tedesco in titoli fra il 1931 e il 1945
Nel 1931 la crisi bancaria tedesca coinvolse anche le borse svizzere, producendo forti crolli del volume di scambi e delle quotazioni. La crisi (dal 1931 al 1935 e dal 1938 al 1940) riguardava in particolare il commercio in titoli tedeschi e mise a dura prova specialmente le piccole banche e agenzie di borsa come anche le banche orientate sul Reich tedesco. L'analisi delle operazioni in titoli, finora poco investigate, evidenzia, all'esempio delle banche e agenzie presenti alla borsa di Zurigo, come le banche svizzere realizzarono possibilità di guadagno create dal contingentamento delle divise, dalle misure di espropriazione messe in atto contro le vittime del regime nazista e dalla guerra. Vanno qui menzionati gli acquisti di recupero realizzati per lo stato tedesco e l'economia privata, il commercio in tagliandi avviato nel 1933 e le operazioni in titoli provenienti da paesi con limitazioni di trasferimento e non muniti di una dichiarazione di proprietà non-nemica o muniti di un tale dichiarazione falsificata.

In linea di massima, il commercio in titoli tedeschi e in quelli provenienti da territori annessi e occupati va distinto dalle operazioni in titoli non-tedeschi, titoli commerciabili internazionalmente o svizzeri. In seguito a crisi bancaria, limitazioni dei trasferimenti e sviluppi politici, le quotazioni dei titoli tedeschi scesero, fino nel 1939, sotto il 20 percento del valore nominale. Nel 1932, in seguito al divieto d'esportazione, decretato dal governo tedesco, il commercio ufficiale in titoli tedeschi, fra banche svizzere e tedesche, si svolse sempre più in una sola direzione: agendo per conto tedesco le banche svizzere riacquistarono titoli tedeschi in Svizzera e in America. Da una parte queste operazioni, descritte in base agli esempi dell'agenzia di borsa Hofmann & Cie., della Eidgenössischen Bank AG, Zurigo, e della sede di Zurigo della SBS, servirono a sdebitare a buon mercato il Reich e l'economia tedesca. Dall'altra permisero al regime nazista di realizzare grossi profitti, visto che i titoli venivano rivenduti in Germania ad alto prezzo. Tali operazioni ebbero luogo in particolare negli anni 1937/38 e 1940/41. Dal 1938 in poi, le banche tedesche e altre società vicine al regime acquistarono da banche svizzere, o tramite la loro intermediazione da clienti depositanti, quote di partecipazione in ditte dei territori occupati. Da un lato queste transazioni, in parte anticipate dalle banche svizzere, servirono ad assimilare l'economia nei territori controllati dalla Germania, agli interessi tedeschi. Da un altro lato ne profittarono anche i perseguitati dal regime nazista, visto che molti emigranti e rifugiati tedeschi dei territori occupati ricevettero l'opportunità di vendere i loro titoli sul mercato svizzero ottenendo valuta estera. La ricerca ha inoltre evidenziato, che con il commercio di cedole e le operazioni di riacquisto si stabilirono, fra i circoli tedeschi e le banche e case di borsa svizzere coinvolte, relazioni commerciali riutilizzate poi, durante la guerra, per l'importazione di titoli rubati.

Le operazioni svizzero-tedesche di commercio in titoli non-tedeschi e svizzeri furono dapprima caratterizzate dalle disposizioni valutarie intertedesche. Dal punto di vista svizzero vanno in prima linea menzionate le leggi valutarie rilasciate nel 1933, 1936 e 1938, con le quali il regime nazista obbligò i «sudditi del Reich», sotto comminatoria di pene draconiane, ad offrire in vendita allo stato i loro titoli stranieri depositati all'estero. All'incontrario di quanto successe per i depositi di titoli appartenenti a clienti degli stati dell'Europa settentrionale e occidentale occupati dai tedeschi – essi furono bloccati dal Consiglio federale dopo l'aggressione tedesca nella primavera del 1940 – le banche consegnarono non solo i depositi di titoli tedeschi in Svizzera, ma anche beni patrimoniali austriaci, cecoslovacchi e polacchi, quando i clienti di questi paesi, sotto la pressione del regime nazista, disponevano il trasferimento dei loro crediti e patrimoni. Questi rimpatri e ordini di vendita alimentarono il commercio in titoli per alcuni mesi, ma a lungo andare le banche svizzere persero buona parte dei loro clienti e delle opportunità di fare affari.

Quando dopo l'«Anschluss» dell'Austria, nel marzo del 1938, gli amministratori commissariali delle aziende «arianizzate» reclamarono la restituzione dei patrimoni appartenenti ai comproprietari ebrei e depositati in Svizzera, le banche svizzere concordarono un procedimento comune. In Germania e Austria avevano interessi eminenti da difendere e temevano, in caso di rifiuto, le contromisure del regime nazista. Per salvaguardare in qualche modo gli interessi degli ex-proprietari d'azienda austriaci, ottemperarono alle disposizioni dei commissari, se sottoscritte anche dai proprietari ebrei. In caso di conflitto le banche bloccarono il deposito e lo consegnarono ad un tribunale svizzero, che in genere rifiutò le richieste degli amministratori commissariali.

Una parte delle banche svizzere e piccole società finanziarie – si trattò in primo luogo degli stessi attori che si erano specializzati nel commercio di tagliandi e che riacquistavano titoli tedeschi per conto di tedeschi – vendendo titoli commerciabili stranieri e internazionali, come le azioni della Royal Dutch o della Chade, per conto di banche tedesche e società di comodo, prese in consegna dalla Germania nazionalsocialista titoli rubati. Il «Terzo Reich» utilizzò in parte la valuta estera così ottenuta per il riacquisto di titoli tedeschi o partecipazioni aziendali provenienti dai territori occupati. Una parte dei titoli venne realizzata in Svizzera, dove giunse, passando dalla Reichsbank o dalla sua filiale Deutsche Golddiskontbank di Berlino, tramite le banche, che su incarico dello stato nazista, acquistarono titoli estorti nei territori occupati (Lippmann, Rosenthal & Co., Sarphatistraat, e Rebholz Effectenkantor, Amsterdam, Westminster Foreign Bank Ltd., Parigi). Un'altra parte venne portata in Svizzera, mediante transazioni camuffate, dalla ditta di commercio di ferramenta Otto Wolff di Colonia e da piccoli commercianti come la banca privata di Berlino Sponholz & Co.

Conoscendo l'origine problematica dei titoli, le banche svizzere più caute, come il Credito Svizzero, controllarono l'importazione di titoli dalla Germania e dai territori occupati. Per contro non ci fu, né prima né durante la guerra, una sospensione giuridica del commercio in titoli rubati nelle borse svizzere. Verso la metà degli anni 1930, la Confederazione rinunciò, sotto la pressione delle banche, a rilasciare una legge sulla borsa, lasciando il compito alla borsa stessa, che d'accordo con l'Associazione dei banchieri, regolò le limitazioni del commercio e gli affidavit. Dopo l'inizio della guerra, il comitato della borsa di Zurigo, ad esempio, introdusse le dichiarazioni di proprietà non-nemica e mise in guardia i membri contro l'importazione di titoli d'origine problematica. Dopo la chiusura delle borse svizzere per due mesi, decretata dalla Confederazione il 10 maggio 1940, a Zurigo la negoziazione ufficiale di titoli dei territori occupati – ad es. azioni della Royal Dutch – rimase sospesa fino alla fine del 1940. In seguito il comitato di borsa limitò il commercio a titoli stranieri in mano di proprietari svizzeri dall'inizio della guerra. Fuori borsa e durante tutta la guerra tuttavia, banche e case di borsa poterono negoziare titoli esteri di proprietà estera. Fino al rilascio di disposizioni più severe nell'agosto del 1941, l'Associazione dei banchieri omise di controllare in modo preciso l'emissione di affidavit, di conseguenza molte banche trascurarono il sistema delle accettazioni giurate. Nel 1941, società finanziarie dubbiose, impiegati di grandi banche e di banche private e operatori fuori borsa falsificarono in grande stile, dichiarazioni di proprietà svizzera per titoli in parte estorti nei territori occupati. Sotto pressione delle banche le infrazioni non furono denunciate. Alla fine del 1942 il comitato di borsa permise, senza spiegazioni, il commercio in titoli di azioni della Royal Dutch, ben sapendo che durante l'anno prima, molti di questi titoli erano giunti in Svizzera per vie irregolari, dove furono poi venduti contro divise. Gli alleati accusarono la borsa di Zurigo e le banche di trafficare con beni rubati e chiesero la proibizione totale del commercio in titoli senza dichiarazione di proprietà svizzera. All'inizio del 1943 , le autorità di borsa cambiarono orientamento solo sotto l'impatto della dichiarazione di Londra del 5 gennaio 1943 e della svolta nell'andamento della guerra. Quando la sconfitta della Germania e il ritiro delle sue truppe dai territori occupati fu prevedibile, le borse, assieme all'Associazione svizzera dei banchieri, introdussero gradualmente, dall'aprile 1943, un sistema più severo di affidavit, per impedire nelle borse svizzere la realizzazione di beni rubati provenienti dai territori occupati dai tedeschi.

Restituzione di titoli rubati, dal 1945 al 1952
La seconda parte della ricerca descrive le conseguenze del commercio in titoli rubati del dopoguerra. Perché, malgrado l'esistenza di una legislazione speciale svizzera sulla restituzione di beni rubati, per molte vittime del regime nazista non fu possibile richiedere la restituzione dei loro beni giacenti in Svizzera? La camera dei beni rubati del Tribunale federale, come interpretò le leggi dopo che la pressione degli alleati sulla Svizzera si fu allentata? Le banche che importarono beni rubati furono identificate e il loro fare sanzionato?

Dopo la guerra, le potenze vincitrici sollecitarono la partecipazione degli stati neutrali alla «riparazione» internazionale delle ingiustizie nazionalsocialiste. Sotto la forte pressione degli alleati, la Svizzera promise, nel marzo del 1945 nell'ambito dell'accordo Currie, di facilitare il ritrovamento e la restituzione dei beni rubati giunti in Svizzera. Il Consiglio federale mantenne la promessa promulgando, il 10 dicembre 1945, una legge speciale sulla ricerca e la restituzione di beni rubati, inclusi i beni culturali e le carte valori. La legislazione portò le banche che avevano importato titoli rubati, al centro dell'interesse. La critica delle banche svizzere sulla legge dei beni rubati fu fondamentale: l'obbligo alla restituzione di beni rubati dal regime nazista e allora ancora giacenti in Svizzera, sostennero le banche, abrogava con effetto retroattivo principi giuridici svizzeri ancora in vigore. La camera dei beni rubati poteva condannare alla restituzione i proprietari di titoli rubati, malgrado la loro buona fede al momento dell'acquisto. Sotto la notevole pressione delle banche, il governo rinunciò infine a condurre un'indagine generale sui beni rubati. In base all'ordinanza di complemento del Consiglio federale del 22 febbraio 1946, l'obbligo di notifica venne limitato ai valori annunciati dispersi da paesi stranieri.

Con la legge di restituzione la Svizzera migliorò sensibilmente la sua posizione politica internazionale. Inoltre la camera dei beni rubati del Tribunale federale, costituita proprio a questo scopo, emise le sue sentenze all'inizio delle guerra fredda 1947/48 e quindi non più sotto i riflettori dell'opinione pubblica internazionale. Il Tribunale federale ricevette infine, entro i (brevi) termini di notifica, alla fine del 1947, a causa delle complicate modalità e del mancato sostegno dei potenziali attori da parte delle banche e della Confederazione, solo 785 domande di restituzione di titoli, per un valore in causa di circa due milioni di franchi. La sola rappresentanza olandese in Svizzera ne inoltrò 760 durante gli ultimi tre giorni prima della scadenza del termine per promuovere l'azione; il resto delle azioni per valori rubati vennero promosse a partire dal Lussemburgo, dalla Francia, dal Belgio e dalla Cecoslovacchia. Per molti dei valori rubati giunti in Svizzera non venne promossa nessuna azione legale e non fu quindi necessario restituirli. Questo successe o perché le vittime e le loro famiglie erano state assassinate, o perché il valore dei titoli rubati in relazione ai costi del processo non ne valeva la pena o perché i danneggiati nei territori occupati non erano per niente a conoscenza del decreto del Consiglio federale.

La Confederazione era per legge tenuta a risarcire i proprietari di titoli sottostanti all'obbligo di restituzione, nel caso non fosse possibile accertare o chiamare in causa l'importatore in mala fede. Un operatore era in mala fede quando avrebbe dovuto ritenere che i titoli provenivano da possesso illegittimo. Mentre la Confederazione aveva quindi un certo interesse a che il tribunale qualificasse di mala fede gli importatori dei titoli rivendicati, le banche coinvolte tentarono in ogni modo di evitare un tale giudizio, temendo una perdita di reputazione e a causa dei costi che ne sarebbero potuti derivare. Sotto la guida del giudice federale Georg Leuch, la camera dei beni rubati trovò una via d'uscita da questo conflitto d'interessi: riconobbe in parecchi casi la buona fede delle banche d'importazione ma le dichiarò ciononostante soggette all'obbligo d'indennizzo. In una sola di tutte le cause trattate dal 1947 al 1951, il Tribunale federale condannò un primo venditore svizzero per mala fede. Oltre alle rivendicazioni dei richiedenti olandesi il Tribunale federale evase mediante accordo amichevole anche molti dei casi restanti. Un giudizio sulla buona o mala fede delle banche importatrici diventò superfluo. Ciò venne incontro alle premure della camera dei beni rubati, che riteneva la legislazione speciale «non priva di aspetti preoccupanti». Nel 1951 la Confederazione si dichiarò disposta, nel quadro di un accordo, a pagare all'Olanda una somma di 635 000 franchi per evadere rivendicazioni di 1,3 milioni di franchi. Le banche contribuirono a questa somma con 200 000 franchi, senza però apparire pubblicamente come parte coinvolta. Riuscirono così, malgrado avessero importato i titoli, a rimanere dietro le quinte.

La strategia del tribunale lasciò aperta la questione della cosiddetta buona o mala fede e in fin dei conti anche quella sulla responsabilità delle banche. Da un punto di vista odierno, è difficile concepire per quale ragione i giudici non si liberarono della pressione delle banche con decisioni di principio e scelsero invece di giudicare le cause sulla base di singole decisioni prese caso dopo caso. È anche difficile capire perché il decreto sui beni rubati escluse le persone espropriate in Cecoslovachia dalla domanda di restituzione, adottando, in maniera strettamente formale, il punto di vista del diritto internazionale; il diritto internazionale riteneva espropriate illegalmente, solo le persone il cui patrimonio privato nei territori occupati era stato rubato durante la guerra, e cioè fra il primo settembre 1939 e l'otto maggio 1945. Gli ebrei tedeschi, derubati dal proprio stato e quindi senza violare il diritto internazionale, non ebbero il diritto di portare la loro causa davanti al Tribunale federale.

Balza all'occhio che in Svizzera il processo di liquidazione delle domande di restituzione fu portato a termine nel momento in cui la comunità internazionale degli stati iniziava appena a mettere in cantiere la questione della «riparazione». In Svizzera, come anche in campo internazionale, la questione della restituzione riemerse con la fine del mondo bipolare. Una sincronizzazione della tematica della restituzione con la guerra fredda diventò visibile già nell'immediato dopoguerra; al cospetto delle tensioni montanti fra oriente e occidente, il tema del ruolo svolto dagli stati neutrali durante la guerra venne sempre più relegato in secondo piano.

Il risultato della ricerca mostra che in Svizzera giunsero più beni rubati di quanti furono rivendicati. E inoltre, furono rivendicati più beni di quelli che si riuscì a restituire. Ed infine va considerato che la legislazione sui beni rubati dell'inverno 1945/46, malgrado i suoi già menzionati difetti, facilitò la domanda di restituzione di beni rubati giunti in Svizzera. Da un punto di vista odierno va comunque constatato che il Tribunale federale interpretò i decreti del Consiglio federale in maniera molto riservato.

(Versione originale in tedesco)