(Pubblicazioni della CIE, volume 18, ordinazioni direttamente alla casa editrice Chronos)

Die Schweiz, der Nationalsozialismus und das Recht.
I. Öffentliches Recht

La Svizzera, il nazionalsocialismo e il diritto.
I. Diritto pubblico

A cura della CIE

Riassunti


La science juridique suisse et le régime national-socialiste (1933–1945)
La scienza del diritto svizzera e il regime nazionalsocialista (19331945)

Jean-François Aubert

Nel suo parere legale l'autore analizza la relazione fra scienza del diritto svizzera e regime nazista. Al centro vi è la domanda come i giuristi conosciuti per la maggior parte attivi nel campo del diritto pubblico si siano espressi, nell'ambito del loro lavoro scientifico, sull'ideologia giuridica nazionalsocialista. Oggetto dell'analisi sono le pubblicazioni scientifiche di giuristi rinomati negli anni 1933–1945, la discussione scientifica nel quadro della revisione totale della costituzione federale svizzera negli anni 1933–1935 e i campi d'interesse posti al centro delle dispute scientifiche nel periodo in questione.

Nella prima parte del lavoro si procede all'analisi delle rilevanti pubblicazioni (manuali, saggi e discorsi) di sei giuristi conosciuti (Fritz Fleiner, Walther Burckhardt, August Egger, Eduard His, Dietrich Schindler sen., Zaccaria Giacometti). La ricerca dimostra che questi rappresentanti della giurisprudenza svizzera si distanziarono chiaramente dall'ideologia giuridica nazionalsocialista. Di principio questo quadro viene confermato dalle recensioni analizzate. Anche in queste infatti trova espressione il rifiuto della dottrina giuridica nazista da parte dei giuristi svizzeri. Esponenti della giurisprudenza svizzera che professarono pubblicamente simpatie per il regime NS, furono un'eccezione.

Nell'ambito della discussione sulla revisione totale della costituzione federale svizzera negli anni dal 1933 al 1935, la maggior parte dei pubblicisti svizzeri prese posizione contro una svolta autoritaria dell'ordinamento costituzionale svizzero. Per l'opinione dominante, i valori tradizionali come democrazia, federalismo e stato di diritto dovevano continuare a giocare un ruolo determinante nella formazione dello stato. In questo senso venne rifiutato un adattamento alla concezione nazionalsocialista dello stato.

Colpisce che la giurisprudenza svizzera negli anni 1933-1945 si confrontò ben poco con il regime nazista. Le tematiche discusse alle giornate annuali della Società svizzera dei giuristi, in particolare, non mostravano legame alcuno, o rispettivamente solo vago, con la dottrina giuridica nazionalsocialista o fascista. Il regime nazista trovò anche pochissima considerazione nei contributi della Schweizerischen Juristenzeitung, in quell'epoca senz'altro la più importante rivista di diritto della Svizzera. Questo disinteresse per gli avvenimenti in Germania si manifesta anche nelle tematiche, molto lontane dall'ideologia nazista, (ad esempio diritto del lavoro, diritto fiscale, diritto penale cantonale, riforma della legge federale sulla procedura giudiziaria ecc.) delle quali si occupava la dottrina giuridica svizzera nel periodo in questione.

(Versione originale in francese)


Fragen des Neutralitätsrechts im Zweiten Weltkrieg
Quesiti attinenti al diritto della neutralità nella Seconda Guerra mondiale

Dietrich Schindler

Il contributo si occupa di questioni attinenti al diritto della neutralità emerse nel quadro delle ricerche della CIE sul traffico di transito, sull'esportazione di materiale bellico e sul clearing. All'analisi delle singole questioni è stata preposta una valutazione del diritto della neutralità che trovò applicazione durante la Seconda Guerra mondiale.

Quale stato neutrale la Svizzera, durante la Seconda Guerra mondiale, sottostava al diritto della neutralità. Il notevole spessore raggiunto nel 19° secolo dal diritto della neutralità ne fece una colonna portante del diritto consuetudinario internazionale e portò in seguito alla sua codificazione nella V e XIII convenzione dell'Aja del 1907. Queste convenzioni vanno situate nel contesto delle guerre tradizionali del 19° secolo: per molti problemi di una guerra moderna non offrivano nessuna soluzione. Il diritto della neutralità svolse quindi un ruolo modesto anche durante la Seconda Guerra mondiale, tanto più che i belligeranti tennero poco conto dei loro doveri verso i paesi neutrali. Queste violazioni della neutralità comunque non portarono ad un'abrogazione o riforma del diritto della neutralità.

La neutralità, secondo il diritto internazionale generale, implica doveri e diritti. I doveri elencati nelle convenzioni dell'Aja si limitano essenzialmente all'interdizione di prestare aiuti bellici ad un belligerante (dovere di astensione) e al non tollerare l'uso del proprio territorio a fini bellici da parte dei belligeranti (dovere di impedimento o difesa). Per contro non esiste un obbligo generalizzato alla neutralità economica: di principio, lo stato neutrale ha il diritto di commerciare con tutte le parti belligeranti. Lo stato neutrale non è tenuto a limitare la libertà di stampa e più in generale la libertà d'espressione dei suoi sudditi, per riguardo delle parti belligeranti.

La domanda se la Svizzera durante la Seconda Guerra mondiale abbia rispettato o no i suoi doveri derivanti dal diritto della neutralità, si pone in particolare per quanto riguarda l'esportazione e il transito di materiale bellico. Secondo la convenzione dell'Aja l'esportazione di materiale bellico da parte di uno stato neutrale verso uno stato belligerante è proibita, come anche il transito in territorio neutrale di materiale bellico appartenente ad uno stato belligerante. Ai fornitori privati invece, sono in linea di massima permessi l'esportazione e il transito di materiale bellico verso un paese belligerante. La distinzione tra esportazione e transito statali e privati, assume quindi un'importanza fondamentale. È fuori discussione che una fornitura d'armi va attribuita allo stato se avviene «su disposizione» di organi statali. Lo studio della CIE sull'esportazione di materiale bellico mostra che diverse forniture d'armi avvennero su disposizione dell'amministrazione militare: andavano attribuite alla Confederazione e rappresentavano quindi violazioni del diritto della neutralità.

Nel contesto del transito di materiale bellico inoltre, si pone la domanda sui doveri di controllo a carico dello stato neutrale. L'obbligo dello stato neutrale di interdire l'uso del proprio territorio a fini bellici da parte dei belligeranti, presuppone l'esistenza di controlli adeguati. In questo senso, il mancato controllo effettivo dei carichi ferroviari da parte delle autorità svizzere durante la Seconda Guerra mondiale va qualificato come violazione della neutralità.

Infine anche la concessione di crediti per forniture di materiale bellico solleva la questione di un'eventuale violazione della neutralità. Il diritto della neutralità proibisce ai neutrali la concessione, a stati in guerra, di prestiti per sostenere i loro sforzi bellici. Lo stato neutrale per contro può consentire che i privati concedano prestiti ai belligeranti: non può però lanciare appelli per la concessione di tali prestiti. Con la conclusione dell'accordo svizzero-tedesco del 9 agosto 1940, il governo svizzero concesse crediti di clearing che servirono al finanziamento tedesco della guerra. Anche l'Italia ricevette nel 1940 e 1942 notevoli crediti per forniture svizzere di materiale bellico. Questi crediti contravvennero all'allora vigente diritto della neutralità.

(Versione originale in tedesco)


Transactions germano-suisses sur l'or pendant la Seconde Guerre mondiale

Transazioni tedesco-svizzere in oro durante la Seconda Guerra mondiale

Jacques-Michel Grossen

Il parere legale si occupa delle questioni di diritto internazionale attinenti alle transazioni in oro avvenute durante la Seconda Guerra mondiale fra la Banca Nazionale Svizzera (BNS) e la Reichsbank tedesca. In primo piano vi figurano il diritto della neutralità come anche i principi riguardanti la tutela della proprietà, ancorati al Regolamento sulla legge e gli usi della guerra terrestre della Convenzione dell'Aja del 1907. Viene inoltre trattata la questione della responsabilità di diritto internazionale della Svizzera, questione che giocò un ruolo importante nell'ambito dell'Accordo di Washington del 25 maggio 1946.

Il diritto della neutralità vigente al momento della Seconda Guerra mondiale, in linea di massima, non obbligava gli stati neutrali a interrompere le loro relazioni economiche con stati belligeranti. Secondo la dottrina e la prassi dominanti non esisteva un obbligo generale alla neutralità economica. Le transazioni in oro fra la BNS e la Reichsbank tedesca quindi, non contravvenivano all'allora vigente diritto della neutralità. D'altra parte la neutralità della Svizzera non giustificava in nessun modo l'acquisto di oro sottratto violando il diritto internazionale. Determinanti per un giudizio su questi acquisti di oro sono piuttosto i principi di tutela della proprietà e altri principi di diritto internazionale fissati nel Regolamento sulla legge e gli usi della guerra terrestre della Convenzione dell'Aja.

Le transazioni in oro svolte durante la Seconda Guerra mondiale fra la Reichsbank e la BNS sono giuridicamente problematiche in quanto vi faceva parte oro sottratto dalle autorità tedesche violando il diritto internazionale. L'oro fornito infatti, conteneva in particolare oro rubato, cioè oro confiscato e depredato, come anche oro rapinato dal regime NS alle vittime, assassinate e sopravvissute, della politica di persecuzione. Queste operazioni rappresentavano una rozza violazione della tutela della proprietà privata garantita dal Regolamento sulla legge e gli usi della guerra terrestre della Convenzione dell'Aja (art. 46 e 47).

Il Codice civile svizzero (CC) contempla l'acquisto in buona fede di beni mobili da persona non avente diritto. Ne consegue che il compratore in buona fede di beni mobili (ad es. oro) può, a determinate condizioni, acquistarli legalmente anche se il venditore non era autorizzato al trasferimento di proprietà (ad es. in caso di confisca contraria al diritto internazionale). Secondo questo principio, ancorato all'art. 934 del CC, la BNS poteva quindi rivendicare la proprietà dell'oro fornito dalla Reichsbank, nella misura in cui fosse stata in grado di provare d'aver agito in buona fede al momento dell'acquisto dell'oro. Secondo l'art. 3 cpv. 2 del CC, ciò sarebbe stato il caso unicamente se il comitato direttivo della BNS, malgrado le dovute precauzioni, non ne avesse potuto riconoscere la provenienza viziata dalla violazione del diritto internazionale. L'autore qualifica di alquanto dubbia l'argomentazione sviluppata dalla direzione della BNS a partire dal 1943, di aver acquistato l'oro dalla Germania in buona fede ritenendolo d'origine ineccepibile. Tale questione non venne mai giudicata da un tribunale svizzero.

Va infine posta la domanda se dagli acquisti di oro della Banca Nazionale Svizzera si possa dedurre una responsabilità di diritto internazionale a carico della Svizzera. Esistono almeno due condizioni per un obbligo di riparazione derivante dal diritto internazionale: un'azione contraria al diritto internazionale e l'imputabilità. Alla base di parecchi acquisti di oro da parte della BNS vi era senza dubbio una violazione del diritto internazionale. Il quesito dell'imputabilità rimane però giuridicamente problematico: le confische attuate in violazione della legge internazionale nella sfera di potere del regime NS erano direttamente imputabili alla Germania e non alla Svizzera. Per il riconoscimento di una responsabilità di diritto internazionale della Svizzera bisognerebbe fare ricorso a fatti come ad es. la complicità o la ricettazione, reati, nel periodo in questione, contemplati sì dal diritto penale ma non dal diritto internazionale. È quindi poco probabile che dopo la guerra un tribunale arbitrale internazionale avrebbe riconosciuto una responsabilità di diritto internazionale della Svizzera. La questione è comunque venuta a cadere, in quanto l'Accordo di Washington del 25 maggio 1946 ha regolato definitivamente il problema del risarcimento per quanto riguarda l'oro rubato.

(Versione originale in francese)


Rechtsprechung der schweizerischen Gerichte auf dem Gebiet des öffentlichen Rechts im Umfeld des nationalsozialistischen Unrechtsregimes und der Frontenbewegung
Sentenze dei tribunali svizzeri in materia di diritto pubblico nel contesto dell'ingiusto regime nazionalsocialista e del movimento dei frontisti.

Arthur Haefliger

La ricerca si occupa delle sentenze pronunciate da tribunali svizzeri in materia di diritto pubblico nel contesto del regime nazista. Vengono trattate le sentenze giudiziarie relative al movimento dei frontisti, il processo contro David Frankfurter, sentenze giudiziarie in casi riguardanti spie, spionaggio e sabotaggio come anche un processo per tradimento della patria. L'obiettivo di questo studio casistico è di chiarire la posizione assunta dalla giustizia svizzera nei confronti del movimento nazionalsocialista e frontista.

La giustizia svizzera si occupò delle attività dei nazionalsocialisti tedeschi e dei frontisti in Svizzera in parecchi casi. In seguito a ricorsi di diritto pubblico, il Tribunale federale aveva così dovuto pronunciarsi in merito a provvedimenti dei cantoni limitanti la libertà di riunione di diversi gruppi frontisti. Oggetto di un ricorso di diritto pubblico fu ad es. il divieto di riunione pronunciato dal governo del canton Zurigo l'8 febbraio 1934 contro il gruppo frontista «Harst der nationalen Front». Il Consiglio federale respinse il ricorso con la motivazione che la libertà di riunione non poteva in alcun modo riferirsi a organizzazioni come lo «Harst» che minacciavano la coesione della comunità statale. Anche in altri casi analizzati il Tribunale federale respinse conseguentemente i ricorsi presentati da gruppuscoli frontisti (ad es. Nationale Front, Union Nationale Neuchâteloise) in merito alla violazione della libertà di associazione e di riunione.

Nel dicembre del 1936 il tribunale cantonale dei Grigioni dovette pronunciarsi sull'accusa di assassinio presentata contro David Frankfurter. Il 4 febbraio 1936 David Frankfurter studente ebraico di medicina all'Università di Berna aveva ucciso, a colpi di arma da fuoco, il capo della Landesgruppe Schweiz (sezione svizzera) della NSDAP (Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi), Wilhelm Gustloff, nel suo appartamento «per vendetta contro il regime nazista». Nel dicembre del 1936, il tribunale condannò Frankfurter per omicidio a 18 anni di reclusione (mettendo in conto il periodo trascorso in detenzione preventiva); fu inoltre espulso a vita dal paese e sospeso nei suoi diritti civili. Nella sua sentenza il tribunale sottolineò che non si sarebbe potuto trascurare l'innegabile legame interno fra questo crimine di per sé comune e la persecuzione degli ebrei in Germania avendo questa risvegliato nell'autore sentimenti non inconcepibili di rancore, anzi di odio. Il Gran Consiglio del cantone dei Grigioni graziò David Frankfurter nel 1945.

Nel periodo in questione, i tribunali furono confrontati con diversi casi di spie, spionaggio e sabotaggio. Il Tribunale territoriale 2, ad es., si occupò di un'azione di sabotaggio contro la Svizzera. Su incarico del maresciallo del Reich Göring, dieci sabotatori penetrarono illegalmente in Svizzera nella notte dal 13 al 14 luglio 1940 per distruggere, con esplosivi, aerei militari svizzeri in diversi aeroporti. Per questa operazione di sabotaggio fallita tempestivamente sventata il tribunale condannò tutti gli accusati, senza eccezione, all'ergastolo.

Accanto al Tribunale federale penale, anche i tribunali cantonali dovettero occuparsi delle attività delittuose dei frontisti. Il processo che si svolse davanti ai tribunali bernesi e che ebbe come oggetto i cosiddetti protocolli dei «Savi di Sion» attirò l'attenzione internazionale. Nell'estate del 1933 la Israelitische Cultusgemeinde Bern (Comunità israelita di Berna) sporse denuncia contro i frontisti che avevano divulgato questo scritto antisemita in Svizzera. Il tribunale d'appello bernese assolse gli imputati principali ritenendo che la pubblicazione dei protocolli non fosse un reato contemplato dalla legge. Ma non accordò loro nessun risarcimento e addossò loro le spese della difesa adducendo l'argomento che chi mette in circolazione tali articoli sobillatori deve anche sopportare le spese che gliene derivano.

Viene inoltre analizzato uno dei 33 processi per tradimento alla patria nei quali i tribunali militari pronunciarono pene capitali. Oggetto del processo era la violazione di segreti militari di due appartenenti all'esercito svizzero. Questi avevano passato informazioni su importanti impianti militari ( ponti e strade militari, depositi di esplosivi e di munizioni ecc.) al servizio di spionaggio tedesco. Considerando tutte le circostanze il tribunale raggiunse la conclusione che i crimini andassero puniti con la massima pena. L'esecuzione della condanna a morte ebbe luogo l'11 novembre 1942.

(Versione originale in tedesco)


Rechtliche Aspekte der schweizerischen Flüchtlingspolitik im Zweiten Weltkrieg
Aspetti giuridici della politica svizzera verso i rifugiati durante la Seconda Guerra mondiale.

Walter Kälin

Il parere legale espone lo stato e lo sviluppo delle norme di diritto internazionale e nazionale che furono rilevanti per la politica svizzera dei rifugiati durante la Seconda Guerra mondiale e da questa analisi deduce criteri adottabili per una valutazione complessiva di questa politica. Nella sua prima parte la ricerca si occupa delle allora vigenti norme a livello nazionale e internazionale attinenti ai rifugiati, in particolare dello sviluppo del concetto di rifugiato e del principio di non-refoulement (non-rinvio). La seconda parte è dedicata al regime svizzero dei pieni poteri e pone al centro dell'analisi le disposizioni esecutive che servirono ad implementare la politica svizzera verso i rifugiati.

Nell'ambito del diritto nazionale, prima e durante la Seconda Guerra mondiale, in molti stati europei le norme attinenti ai rifugiati erano caratterizzate da un concetto di rifugiato restrittivo che risaliva al 19° secolo. Questo era il caso anche in Svizzera: la possibilità di concedere asilo e protezione contro il rinvio era ancorata alla legge unicamente per i «rifugiati politici», e cioè per persone che apparivano minacciate nel loro paese di origine a causa della loro attività politica proibita. Per persone perseguitate per altre ragioni, il diritto interno svizzero non prevedeva nessun status o protezione particolari. Di conseguenza gli ebrei e altre persone perseguitate a causa della loro razza, non godevano della protezione offerta dal diritto d'asilo.

A livello del diritto internazionale si può constatare, a partire dagli anni 1930, un graduale allargamento del concetto di rifugiato. In diversi accordi internazionali, la qualifica di rifugiati fu attribuita a singoli gruppi e persone, descritti con precisione e provenienti da determinati stati, fra i quali anche la Germania. L'attribuzione della qualifica di rifugiato tuttavia, non comportava necessariamente uno status giuridico o una protezione particolari. Nel periodo fra le due guerre si giunse pur sempre ad ancorare, anche se solo nella sua impostazione, il principio di non-rinvio. I rispettivi accordi non prevedevano però quasi mai un divieto del rinvio al confine, ma limitavano la protezione a quei rifugiati che erano riusciti a superare la zona di confine e a raggiungere l'interno del paese. Dalla firma dell'accordo provvisorio del 4 luglio 1936, risultò per la Svizzera l'obbligo di non espellere i rifugiati provenienti dalla Germania che avessero superato i confini e che non fossero stati intercettati subito dopo nella zona di confine.

La dottrina giuridica considerò (e considera tuttora), praticamente all'unisono, ammissibile il regime dei pieni poteri durante gli anni di guerra, cioè la trasmissione di ampi poteri legislativi e di modifica della costituzione, dall'Assemblea federale al Consiglio federale. L'argomento decisivo è essenzialmente che la minaccia dell'esistenza e dell'integrità dello stato avesse, in quel momento, richiesto questa misura. Dall'ammissibilità del diritto di emergenza non deriva tuttavia automaticamente la non problematicità di tutte le misure che su di esso si basarono. La questione decisiva era se queste misure, materialmente e temporalmente, non superassero le dimensioni necessarie al raggiungimento degli scopi perseguiti.

Lo studio analizza più da vicino anche la questione della legittimità dell'obbligo di deposito del patrimonio di rifugiati e della cosiddetta contribuzione di solidarietà, la problematica del «bollo-J» e il trattamento dei fuggiaschi nei campi di internamento e di profughi. Riassumendo si ottiene il quadro seguente: giudicando con un metro odierno, il trattamento dei rifugiati giunti in Svizzera durante la Seconda Guerra mondiale va classificato, per differenti versi, come illegittimo. Il giudizio da un punto di vista contemporaneo giunge in gran parte ad un altro risultato: l'obbligo di deposito del patrimonio di rifugiati e il trattamento dei fuggiaschi nei campi di internamento e di profughi erano sì non totalmente, ma tuttavia ampiamente conciliabili con il diritto nazionale e internazionale vigente, nella misura in cui, alla luce delle circostanze concrete, non potevano essere giudicati come vessatori o non violavano obblighi derivanti da trattati di domicilio.

Problematico da un punto di vista giuridico era il prelievo di una contribuzione di solidarietà in quanto contraria a trattati di domicilio che proteggevano emigranti e rifugiati con la tolleranza. Problemi giuridici risultano anche per quanto riguarda il «bollo-J». Anche se alla limitazione del diritto di entrata degli ebrei tedeschi, secondo l'opinione di allora, non v'era contrapposto nessun divieto costituzionale di discriminazione, la limitazione violava comunque il trattato di domicilio con la Germania e valori fondamentali dell'ordinamento giuridico svizzero (Ordre public).

(Versione originale in tedesco)


Der völkerrechtliche Schutz des Privateigentums im Kontext der
NS-Konfiskationspolitik

La tutela della proprietà privata contemplata dal diritto internazionale vista nel contesto della politica di confisca nazionalsocialista

Frank Haldemann

Questa analisi storico-giuridica esamina, sulla base del diritto internazionale contemporaneo, la prassi della diplomazia svizzera in relazione alla politica di confisca nazista. Nella prima parte dello studio vengono esposti i principi del diritto internazionale attinenti alla tutela della proprietà privata all'epoca del nazismo. Vi si affronta la questione fondamentale in che misura l'allora vigente diritto internazionale tutelasse cittadini svizzeri nel «Terzo Reich» da interventi statali nella proprietà privata. Nella seconda parte, viene chiarita la prassi delle autorità svizzere in relazione ai principi del diritto internazionale sopraccitati. In primo piano figura la discussione di principio condotta nell'amministrazione federale negli anni 1938 e 1941 e anche il caso Oscar P., del quale le autorità federali si occuparono negli anni 1935-1938.

Mentre sotto il diritto internazionale classico le persone indigene e apolidi erano esposte senza alcuna tutela al potere dello stato d'origine o di residenza, ciò non era il caso per i cittadini stranieri. Il diritto internazionale degli stranieri, ancorato sia al diritto consuetudinario internazionale, sia al diritto contrattuale internazionale, limitava severamente i poteri degli stati nei confronti dei cittadini stranieri. Durante il periodo fra le due guerre s'impose gradualmente la concezione giuridica che ai cittadini stranieri andasse in ogni caso garantita la permanenza di un nucleo di diritti fondamentali e di libertà attinenti al sistema dello Stato di diritto.

Una componente importante di questo «minimum standard» era la tutela della proprietà privata. Nel periodo fra le due guerre, il principio della tutela di diritti acquisiti si stabilì quale norma del diritto consuetudinario internazionale. Secondo questo principio uno stato non poteva sottrarre il patrimonio a cittadini stranieri, senza risarcimento immediato e giusto. Ma anche numerosi trattati di commercio, amicizia e domicilio garantivano un'ampia tutela della proprietà privata, così pure i trattati bilaterali di domicilio conclusi dalla Svizzera con numerosi stati nel 19° secolo. Il diritto bellico internazionale inoltre, garantiva alla popolazione civile degli stati sotto occupazione determinati diritti fondamentali, fra i quali figurava in particolare il diritto alla proprietà privata.

In vista dell'imminente pericolo per gli ebrei svizzeri nella sfera del potere nazista, le autorità svizzere dovettero affrontare la questione della protezione diplomatica. La prassi esposta nello studio traccia un quadro dubbioso della diplomazia svizzera alle prese con la politica nazista di confisca. Caratteristica per il comportamento delle autorità fu una crescente politicizzazione della protezione diplomatica: non la minacciata posizione giuridica dei compatrioti ebrei, bensì interessi di politica estera divennero sempre più metro dell'azione diplomatica. E le autorità non disdegnarono di abbandonare affermati principi giuridici, in particolare il principio costituzionale dell'uguaglianza e il principio del minimum standard. Nella prassi diplomatica si delineò così un adattamento ai criteri «etnici» dello stato nazista. Un adattamento profondamente contrario all'uguaglianza degli ebrei garantita dalla costituzione dal 1874.

La discussione sull'ordinanza tedesca del 26 aprile 1938 riguardante la notifica del patrimonio di ebrei evidenziò «la strategia politica del caso per caso» della diplomazia svizzera. Le autorità tralasciarono di reagire con contromisure diplomatiche a questa ordinanza antisemitica che coinvolse anche gli ebrei svizzeri in Germania. Anche il parere legale del giudice federale Robert Fazy, commissionato dal Schweizerischer Israelitischer Gemeindebund (SIG) (Federazione svizzera delle comunità israelite FSCI), che rivelò chiaramente, nell'ambito del diritto internazionale, l'illegalità dell'obbligo di notifica, non riuscì a indurre le autorità svizzere a intraprendere un intervento di principio a favore degli ebrei svizzeri residenti in Germania.

La posizione delle autorità diventò chiara durante la discussione sulla piccola domanda parlamentare Graber del 12 giugno 1941. In una presa di posizione pubblica il Consiglio federale si richiamò al diritto internazionale vigente per rifiutare agli ebrei svizzeri lo stesso diritto che spettava agli «altri» svizzeri in Francia. Questa posizione era come constatò in maniera inequivocabile il professore di diritto internazionale Paul Guggenheim in un parere legale commissionato dal SIG in aperto contrasto con il trattato di domicilio franco-svizzero del 23 febbraio 1882 e anche con l'allora vigente minimum standard.

Significativo fu in merito anche il comportamento delle autorità nel caso Oscar P. Nella divisione degli affari esteri ebbe il sopravvento l'opinione che le «buone relazioni con la Germania» non andavano messe in pericolo per una «libreria dichiaratamente ebraica». La coerente posizione giuridica del ministro della Legazione svizzera a Berlino, Paul Dinichert, non trovò ascolto: egli qualificò le misure antisemitiche dello stato nazista come chiara violazione della legge e richiese contromisure.

(Versione originale in tedesco)


Einordnung der schweizerischen Praxis zum NS-Unrecht nach dem
Zweiten Weltkrieg

Inquadramento contestuale della prassi svizzera in merito alle ingiustizie naziste dopo la Seconda Guerra mondiale

Jochen Abr. Frowein

Il parere legale analizza la prassi giuridica svizzera dopo la Seconda Guerra mondiale e la colloca nel contesto delle allora vigenti norme del diritto internazionale e dei principi giuridici generali. Al centro vi figurano le tematiche connesse alla «riparazione» nelle quali si abbordano i problemi specifici della Svizzera, relativi al regolamento delle conseguenze della guerra. La ricerca conclude con una valutazione della prassi svizzera di restituzione nel confronto internazionale.

Per quanto riguarda i problemi legati alla «riparazione», bisogna anzitutto distinguere se il danno sia stato provocato dal proprio stato o da uno stato straniero. Infatti, dopo la Seconda Guerra mondiale, all'azione legale contro uno stato straniero si opponeva di principio la tutela dell'immunità degli stati prevista dal diritto internazionale. Azioni legali contro lo stato tedesco, ad es. davanti ad un tribunale svizzero, erano in questo senso impossibili. Solo in tempi più recenti si è sviluppata la tendenza a infrangere l'immunità nel caso gli atti di uno stato rappresentino un'ingiustizia estrema. Tuttavia dopo la Seconda Guerra mondiale, la possibilità di uno stato di far valere, nel caso di una violazione del diritto internazionale, un diritto a risarcimento, faceva già parte dei principi riconosciuti del diritto internazionale. Questo diritto esisteva di principio solo da stato a stato. Per gli individui, nel caso di una violazione del diritto internazionale, non era previsto nessun diritto d'indennizzo.

Nelle questioni attinenti alla «riparazione», va in particolare tenuto conto della prassi della Repubblica Federale Tedesca. La «riparazione» legale delle ingiustizie naziste era qui fondata sulla concezione dell'esistenza di una situazione, non adeguatamente risolvibile sulla base dell'ordinamento giuridico generale senza provvedere a norme giuridiche speciali. La limitazione del diritto a riparazione tedesco risultava soprattutto dall'applicazione del cosiddetto principio della territorialità, secondo il quale, in prima linea, andavano risarciti i perseguitati che avessero trovato il centro della loro esistenza sul territorio della Repubblica federale. Un'ulteriore restrizione essenziale derivava dal fatto che secondo le leggi tedesche non esisteva in quanto tale un diritto d'indennizzo speciale per il lavoro forzato effettuato.

Nel contesto delle conseguenze della guerra, in Svizzera emersero problemi giuridici in diversi settori. Il Consiglio federale tentò di affrontare il problema dei beni rapinati e rubati con il decreto sui beni rubati del 10 dicembre 1945. Dispose che le persone le quali in un territorio occupato erano state depredate in violazione del diritto internazionale, o spogliate con violenza, confisca, requisizione o azioni analoghe, dei loro beni e delle loro proprietà, potevano rivendicare questi oggetti nei confronti dell'attuale proprietario, sia egli in buona o mala fede, nel caso gli oggetti in causa si trovassero in Svizzera. Il decreto del Consiglio federale del 1945 era applicabile anche ai titoli. Secondo il testo della legge la condizione per l'applicazione del decreto era che i titoli fossero stati sottratti al possesso o alla proprietà dell'avente diritto violando il diritto internazionale.

Nel contesto delle conseguenze della guerra, i tribunali svizzeri ebbero a occuparsi soprattutto anche dei contratti assicurativi stipulati in Germania da compagnie d'assicurazione svizzere. I tribunali constatarono sì chiaramente la violazione dell'Ordre public svizzero da parte del regolamento tedesco, ma non ne trassero la conclusione che le espropriazioni compiute in Germania andassero, in Svizzera, annullate nella loro totalità.

La tematica dell'indennizzo dei lavoratori forzati è rilevante anche per la Svizzera, visto che anche le succursali e filiali tedesche delle ditte svizzere impiegarono lavoratori forzati durante il periodo in questione. Ai lavoratori forzati, la legge federale tedesca sull'indennizzo non accordò nessuna retribuzione per le prestazioni lavorative forzate, ma solo un indennizzo per i danni al corpo o alla salute e per la reclusione nei campi di concentramento. Recentemente, su iniziativa del governo federale tedesco e dell'industria tedesca sono stati messi a disposizione, sotto forma di fondazione, 10 miliardi di marchi tedeschi per l'indennizzo dei lavoratori forzati. Questo regolamento comprenderà anche lavoratori forzati impiegati da imprese svizzere. Va tuttavia sottolineato che non sarebbe comunque stato compito della Svizzera creare diritti d'indennizzo per lavoratori forzati, poiché le imprese straniere operanti in Germania sottostavano senza alcuna restrizione all'ordinamento giuridico tedesco e l'impiego di lavoratori forzati era quindi regolato dalle norme del diritto nazista.

Il parere legale paragona il trattamento della questione dei beni rubati da parte della Svizzera con le disposizioni del Belgio, della Francia e dell'Olanda. Dal regolamento svizzero differisce in particolare quello olandese che prevede l'inversione dell'onere di prova nel caso di un acquisto in buona fede: l'acquirente deve quindi provare di essere stato in buona fede al momento dell'acquisto.

Nella sua valutazione della prassi di restituzione svizzera nel confronto internazionale, l'autore giunge alla conclusione che, considerando la situazione particolare della Svizzera, una critica generale della reazione elvetica all'ingiustizia del «Terzo Reich» non sia appropriata.

(Versione originale in tedesco)